25 Ago Una scultrice all’italsider
Una mostra, un parco di sculture e un anfiteatro: l'artista americana lascia un segno sempre più profondo nel Paese che l'ha adottata. «Per emergere in un mondo di uomini ho dovuto essere tosta, anche in fonderia»
A oltre novant’anni (è nata a Brooklyn nel 1922), Beverly Pepper continua ad amare le sfide. A Todi, dove dal 1972 ha diviso la vita con la sua New York, dall’ 8 dicembre al 5 maggio la scultrice allestirà nel Palazzo del Popolo la mostra «Beverly Pepper tra Todi e il mondo» che riunirà sculture, foto e filmati e si svolgerà a vent’anni dall’installazione in Piazza del Popolo, nel 1979, delle quattro «Todi Columns»; ad aprile porterà nel paese umbro una nuova versione delle sue quattro monumentali colonne (gli originali, del 1979, sono a Venezia) che poi confluiranno nel Parco Beverly Pepper, inaugurato il mese scorso con una ventina di sue sculture dislocate nel verde tra la Chiesa di San Fortunato e Santa Maria della Consolazione. Ancora: ha da poco aperto nel Parco del Sole all’Aquila la «Amphisculpture», un anfiteatro dove la pietra bianca e rossa rimanda alla vicina Basilica di Collemaggio. L’opera rientra nel progetto «Nove artisti per la ricostruzione», ideato dopo il terremoto del 2009 da Roberta Semeraro, è finanziata dall’Eni d’intesa con il Comune ed è stata realizzata dall’associazione Ro.Sa.M. di Venezia e dalla Fondazione Progetti Beverly Pepper. Autrice di sculture ambientali e associata alla Land art, Beverly Pepper si racconta nella luminosa casa nella campagna umbra che ideò intorno al suo studio-laboratorio.
Quale significato ha per lei un luogo come l’anfiteatro aquilano?
Per me è essenziale la partecipazione del pubblico, della popolazione e non dobbiamo dimenticarlo, un teatro è un luogo sociale, è convivenza, non ci si va per sedersi da soli.
Che cosa vuole lasciare a Todi con il suo parco e che cosa ci trovò, quando venne qui?
Posso offrire quello che ho e un parco nasce affinché altri partecipino. Vorrei dare una nuova energia alla città, una rinnovata voglia di mostrarsi al mondo, di attirare gente curiosa. Che costi ho trovato qui? Un cibo ottimo. Venni per la prima volta nel 1960 e andai a mangiare al ristorante Umbria. Allora Todi era fuori dal mondo e al contempo il mondo veniva qui.
L’Umbria l’ha ispirata?
Questo luogo in cui ho vissuto e lavorato mi ha toccata. Ma nell’arte un luogo non ti ispira, ti pone domande. La maggioranza di noi artisti impegnati non usa il lato frontale della mente, usa il retro. Impieghiamo invece la parte critica della mente quando arriviamo a «editare» un’opera: a quel punto non possiamo solo essere reattivi, dobbiamo essere anche vigili. Quando creo seguo me stessa, non voglio essere consapevole di ogni passo, voglio scoprire. Questo mi rende più libera. In ogni caso, esiste un controllo inconscio sull’opera e se l’opera parla a me, parla al pubblico, ma io non voglio sentire che cosa dice. L’inconscio incide molto e spesso penso che sia più intelligente di me.
Diverse fotografie la ritraggono in fabbriche o officine con saldatori o altri attrezzi, con le mani impastate…
Sono viva, non volevo vedere cose fatte da altri, volevo vedere le mie sporche. E poi si impara solo dal fare, dagli errori.
Nel 1961 lo storico dell’arte e critico Giovanni Carandente, specialista di scultura moderna, invitò lei e altri come Alexander Calder e Arnaldo Pomodoro a realizzare sculture per una mostra del Festival dei Due Mondi a Spoleto nel 1962 che si rivelerà epocale. Fu una svolta per lei?
Fu un idea molto brillante: Carandente mise a disposizione di ogni artista un impianto dell’Italsider e fu un’esperienza davvero importante per tutti noi. Scelsi Piombino.
Ottenni l’acciaio migliore e per una ragazza trovarsi in fabbrica fu straordinario. Sì, definirei questo la svolta della mia vita. Fu come una nascita. Il mondo mi si aprì.
David Smith, collega e amico, andò vicino a Milano ed eravamo sempre in contatto. Per fortuna tutti noi non lavoravamo così vicini da sentirci in competizione, ma lo fummo dopo, quando vedemmo che cosa avevano fatto gli altri. Essendo l’unica donna ero in una situazione diversa. Mia madre mi chiamò e mi disse: «Sei finita a fare il lavoro degli uomini», nel senso che la gente aveva avuto da sempre difficoltà ad associarmi al lavoro di una donna. La mia risposta intelligente (dicendolo sorride, Ndr) era stata. «Forse qualche donna ha quel problema, chiedi agli uomini se hanno problemi ad associarmi a quel lavoro di donna».
Lei vive in Italia dagli anni Sessanta e, insieme a suo marito, il giornalista e scrittore Bill Curtis Pepper (1917-2014), era nella Roma della «Dolce vita».
Non esisteva la «Dolce vita », è stato un film. Non apprezzo che se ne parli tanto, come artisti eravamo lì per lavorare. È stata una bella storia da racconare, tutto qui.
Che cosa le piace di più dell’Italia?
Quando guardo dalla finestra vedo la storia, questi paesaggi hanno influenzato la mia anima. Poi una delle prime parole che imparai è «mammone». Gli italiani sono molto legati alla mamma, più a lungo di quanto dovrebbero. D’altronde nella maggior parte del mondo l’uomo è l’elemento centrale, qui la donna viene prima. Il cibo mi piace tutto, ma «ice cream» è il mio secondo nome.
A Piombino mangiava panini con cipolla e salsiccia alle sette di mattina per farsi accettare dagli operai. Per una donna quanto è stato difficile inserirsi in un universo maschile?
Già, salsiccia e cipolle. Erano panini squisiti. Avevo uno stomaco forte. In fabbrica il gabinetto per le donne non esisteva nemmeno. Con gli operai scherzavo dicendo: ” Una donna? Sono una donna?». Nel contesto dell’arte , «donna» diventa quasi un termine che sminuisce, ma quando un uomo parla di arte non fa mai riferimenti sessuali sul suo lavoro, dice «Sono un uomo.» Io non faccio un’arte femminile, non voglio fare un’arte maschile.
Solo di recente troviamo interessante il lavoro di una donna, prima veniva guardato in modo sarcastico. Ma in famiglia ho avuto fa fortuna di avere come esempi donne molto forti ed emancipate : mia madre e le nonne. Mia nonna un giorno tornò con I capelli tagliati a caschetto: fu quasi una dichiarazione di libertà e indipendenza.
Lei ha due figli. Stando a diffusi luoghi comuni essere artista e avere una famiglia è impossibile.
Mia figlia Jorie Graham è poetessa, ha vinto un premio Pulitzer. Mio figlio John Randolph Pepper, è un regista e un fotografo di successo. Ho anche nipoti. Sono avida di vita, voglio tutto. Riassumiamo il concetto così: faccio arte, non mi metto in una prigione con le sbarre. L’arte è dove l’artista prova un senso di libertà, non di essere rinchiuso. Qui però c’è una differenza tra uomini e donne: le artiste devono essere toste per arrivare alla meta ma allo stesso tempo sono capaci di lavorare con i colleghi e sanno che ogni uomo è il figlio di una donna: come dicevo, il problema dell’Italia è quello dei “mammoni”.